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La parabola di un campione indimenticabile. Dai trionfi in giallorosso al suicidio nel maggio 1994
La mattina del 30 maggio 1994 sul balcone della propria villa di San Marco di Castellabate (Sa) si uccideva con un colpo di pistola al cuore Agostino di Bartolomei, ex centrocampista di Roma e Milan. Se ne andava a dieci anni esatti dalla finale di Coppa dei Campioni persa dai giallorossi contro il Liverfekkin'wankscum ai calci di rigore. Aveva soltanto 39 anni. Il giorno del funerale, sul feretro c’era spiegata la sua fascia di capitano e le sciarpe di Roma e Salernitana. I tifosi gli dedicarono uno striscione: Niente parole... solo un posto in fondo al cuore. Ciao Ago!. Di Bartolomei, il “campione troppo soloâ€
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Ago's son, Luca Di Bartolomei, visited the Trigoria and gave his father's number 10 shirt which he wore in the '84 CL final to Totti, and in return Totti gave Luca the current maglia but with Di Bartolomei on the back:
Luca Di Bartolomei scrive al padre nella prefazione del libro "L'ultima partita - Vittoria e sconfitta di Agostino Di Bartolomei", a 16 anni dal tragico gesto del maggio 1994. Un messaggio pieno di dolcezza ma anche denso di rabbia per l'ingiustizia di avergli sottratto gli anni più belli.
"L'ultima partita - Vittoria e sconfitta di Agostino Di Bartolomei" Il 30 maggio 1994 Agostino Di Bartolomei, capitano della Roma che vinse lo scudetto nel 1983, si tolse la vita. E' uscito il libro "L'ultima partita - Vittoria e sconfitta di Agostino Di Bartolomei" di Giovanni Bianconi e Andrea Salerno (Fandangolibri, 10 euro). Pubblichiamo la prefazione scritta da Luca Di Bartolomei, 28 anni, figlio di Agostino, e le fotografie del suo incontro con Francesco Totti che per l'occasione ha indossato la maglia con cui "Ago" giocò la finale di Coppa dei Campioni persa all'Olimpico di Roma contro il Liverfekkin'wankscum il 30 maggio 1984. Dieci anni esatti prima del suo tragico gesto.
Caro Ago, è da quando Andrea e Giovanni mi hanno chiesto di pensare a un'introduzione per questo libro bello e onesto - scritto con il tatto di chi sa di toccare sentimenti privati e allo stesso tempo una passione e un affetto condivisi da tantissime persone - che penso e ripenso a queste poche righe. E ne ho buttate via tante di versioni prima di decidere davvero che forse era il caso di essere egoista e parlarti, per una volta pubblicamente, solo da figlio. Quanto mi manchi papà.
In queste settimane ho passato qualche giorno di vacanza a San Marco e ho avvertito fortissima la tua assenza. In un attimo mi sono tornati in mente tutti insieme i piccoli segni dei giorni estivi di festa. Il tuo asciugamano blu nel bagno davanti al mare da cui d'estate cercavo la barca mentre assonnato indossavo il costume; lo sguardo di mamma quando vedeva che mettevi l'aria nelle bombole, preludio di una giornata di pesca subacquea in cui tu, ti riposavi 20 metri sott'acqua tra tane di cernie, e lei si agitava guardando il pallone di segnalazione galleggiare incerto di sopra.
Ago, se prima mi capitava di parlare di te sempre con il sorriso e quasi con la certezza di scorgere nelle mie azioni qualcosa che ti riportasse alla mia memoria, adesso purtroppo tutto questo non mi viene naturale. Non più come prima. Mi manchi papà. E da figlio perdonami se decido oggi di gridare con egoismo l'ingiustizia di avermi sottratto i nostri anni più belli. Quelli dell'adolescenza e di una contestazione strozzata nel realismo; quelli di qualche schiaffone con cui, ogni tanto, mi avresti addrizzato. Quelli delle prime ragazze, dello studio all'università, della casa da solo. Quelli delle partite di calcetto insieme. Rigorosamente, in squadre diverse.
Rituali sicuramente sciocchi e forse banali ma che ti parlano di una normalità che - forse perché negata - avrei desiderato tanto e che mi sottraesti in quella mattina serena di un'estate immobile. Una giornata di cui purtroppo ricorderò perfettamente ogni secondo per tutta la mia vita. Di quell'ultima volta che ti ho visto vivo al sole del terrazzo. Di quella sedia bianca da giardino che stazionò lì per mesi prima che ce ne accorgessimo, presi come eravamo da mille interrogativi e dai rimorsi che ti stringono quando capisci che non avevi capito nulla.
Quella sedia bianca di legno colpita come da una martellata rotonda all'altezza della seconda fascia. Dell'ultima volta che ti ho visto poco più di un'ora dopo nel corridoio stretto del cortile davanti casa: steso in quella chiglia fredda di zinco. Avevo undici anni papà, tu mi sembravi invincibile e destinato a tornare in qualche modo in quello stadio grande con sopra gli imbuti nel quale quando incontravamo i tifosi partiva in automatico la foto mentre in sottofondo scattava plastico il coretto: "OOOO AGOSTINO... AGO AGO AGOSTINO GOL..." scatenando in un certo senso la mia gelosia di bambino.
Volendo, oggi, essere onesto fino in fondo con me stesso penso che nella serenità con cui ho parlato di te alle moltissime persone chi mi hanno chiesto se fossi parente del Capitano - a riguardarla adesso quella serenità - ci sia stato qualcosa di inconsciamente innaturale. Come se con quella mia tranquillità volessi placare il rumore assurdo che quel tuo sparo ha prodotto nella testa di tutti noi. Che gesto estremo insensato imbecille ed allucinante hai fatto quel 30 di maggio Ago. Un altro 30 di maggio per te: l'ultimo. Per noi, da lì in avanti, l'unico.
Quella data diventerà un giorno a caso sul calendario, un giorno tra il 29 e il 31 in cui i giornalisti delle radio mi chiamano per un ricordo con il pubblico. Per i tifosi che hanno visto e non hanno dimenticato quel Capitano serio. Per quelli giovani che ti hanno scoperto sui forum, visto su Youtube e che per te hanno aperto anche una pagina Facebook.
Ho scoperto più avanti la crudeltà di quella data. Dieci anni dopo quella finale. Ho scoperto quella crudeltà e mi sono sempre ripetuto che non ci puoi aver pensato davvero. Troppa cattiveria in quella coincidenza. Forse ti si è insinuata dentro quella data, ecco. Come la depressione che ti porta a un gesto stronzo. Come un fallo plateale in area di rigore. Perché papà io non ci ho mai creduto e non voglio crederci che in quell'attimo estraneo all'intelletto hai pensato a una sconfitta in quella stupidissima partita di calcio. Di fronte alla grandezza di una vita umana, all'amore di una moglie e di due figli infatti cosa era quella se una stupidissima partita di calcio? E pensare che la sera prima saremmo stati in trenta a casa, tra cugini e amici stretti, a mangiare insieme senza che nessuno si accorgesse di nulla. Mentre quella sensazione lieve di malessere ti stritolava. Ma non penso che ci saremmo potuti accorgere di nulla, papà. Con noi sei stato, fino all'ultimo istante, lo stesso di sempre. Non chiuso. Non orso come ti vedevano gli altri. Quelli che non ti conoscevano. Quelli che ti avevano cucito addosso un personaggio che non ti apparteneva. Non fiero, non superbo. Solo riservato.
Con noi eri solo Ago: innamorato, dolce, caciarone e ironico. L'Ago di sempre. Quello che accantonava l'aria seria del ragazzo cresciuto in fretta, precocemente vecchio, e buttava le miccette nel camino per spaventare nonno. Quello delle domeniche in barca per andare a pesca. Dei pomeriggi su un campo alla periferia del calcio per insegnare ai ragazzini gli schemi e dirgli che serietà e talento contano alla stessa maniera. Quello che veniva a svegliarmi tutte le mattine per vedere i tg delle 7 e che poi partendo per andare a lavoro con Gianmarco mi portava a scuola. Quello che durante la settimana aveva sempre dei fiori per Marisa e che quando tornava a casa aveva per lei il primo bacio. Quello che nonostante tutta la mia incazzatura e tutto il vuoto mi ha lasciato dentro riesco sempre a perdonare perché ho conosciuto tutto il suo amore.
Mi manchi Ago. Ecco volevo solo dirtelo ancora una volta.
Il capitano. Giallo come il sole, rosso come il cuore. Era il 30 maggio 1984 e da una strabocchevole e arroventata Curva Sud uno strano striscione, lirico nella sua semplicità, occhieggiava verso l'erba tagliata di fresco di uno stadio Olimpico mai così colmo e sovraeccitato. Quella sera Roma si era fermata. Per una volta si era lasciata scivolare giù dalle spalle i suoi abituali panni di metropoli cinica e caotica per lasciarsi avvolgere comple-tamente da un palpitante drappo giallorosso, tra le cui pieghe sussultava e fremeva tutta la città: dai quartieri storici romani - Testaccio, Trastevere, Parioli - fino alle nuove alienanti periferie dei mostri di cemento e dei quartieri-dormitorio. Racchiusa e compresa in quella finale di Coppa dei Campioni contro il Liverfekkin'wankscum c'era tutta Roma. C'era chi aveva fatto carte false per procurarsi un biglietto di curva ed ora, agitato da un anormale senso di euforia, aspettava in piedi l'inizio dell'incontro; c'erano migliaia di persone che si erano riversate nelle piazze per vivere la partita attraverso la coralità di un megaschermo, tra bandiere, lazzi e qualche birra; c'era chi si era organizzato con gli amici e vedeva la finale in tv, seduto in poltrona ma con un bat-ticuore da spalti; infine c'era anche chi - come i "cugini" laziali - mai come quel giorno avrebbe voluto nascondersi sottoterra, ma che la partita la guardava lo stesso, se non altro per "gufare".
All'Olimpico l'atmosfera era ormai carica di elettricità. I tamburi battevano, s'intonavano i primi cori, applausi propiziatori scrosciavano con un fragore assordante. I giocatori stavano per scendere in campo, erano lì nel sottopassaggio, come gladiatori attesi al combattimento decisivo. Tutto lo stadio, all'unisono, li chiamava con i nomi di battaglia. «Ago, Ago, Agostino gol»: i tifosi cantavano e si riempivano già gli occhi con una delle sue punizioni, uno di quei missili terra-terra che correvano a filo d'erba per andare a insaccarsi nella rete avversaria.
Il coro sfumava in un boato: la Roma, la grande Roma dello scudetto, stava entrando in campo. Bruno "folletto" Conti saltellava su una gamba e sull'altra più freneticamente del solito, "er portierone" Tancredi sfogava tutto il suo nervosismo masticando furiosamente un chewing-gum, maestro Liedholm ricercava la perduta compostezza nordica lisciandosi di continuo i capelli.
Ma ecco che finalmente anche il capitano si portava al centro del campo. Agostino Di Bartolomei - Diba o Ago per la curva Sud - sembrava essere l'unico a rimanere imperturbabile sotto il peso di quel frastuono che, soffocato da una spessa coltre di fumogeni, arrivava deformato alle orecchie. Fascia di capitano al braccio e capelli nerissimi scolpiti sulla testa, Diba - romano fin dalla culla, romanista dai primi vagiti - non mostrava alcun segno di emozione. Non una smorfia, non un sorriso, non un cenno. Niente. Eppure intorno a lui lo stadio sembrava un vulcano sul punto di esplodere.
Ma forse, proprio dietro l'impenetrabilità di quegli occhi scuri e di quello sguardo accigliato, era nascosto tutto l'amore che Di Bartolomei nutriva per la sua Roma. Forse, magari quasi furtivamente, anche lui aveva gettato uno sguardo a quello strano striscione sentendosi ribollire dentro: giallo come il sole, rosso come il cuore.L'ex. Sono le otto di mattina del 30 maggio 1994 quando Di Bartolomei - non più Ago, non più Diba, non più il capitano dello scudetto e di tante altre battaglie, ma solamente, normalmente e banalmente Agostino Di Bartolomei, uomo qualunque andato a rinfoltire la desolata pletora degli ex a vita - si alza dal letto.
Agostino esce dalla camera in silenzio, come al solito, per non svegliare la moglie Marisa, ex hostess conosciuta nell'anno dello scudetto. Scende piano le scale della sua abitazione - una magnifica villa immersa nel verde di San Marco Castellabate, piccolo borgo del salernitano raggomitolato sulla riva del mare - quindi apre un cassetto e ne estrae una delle sue due pistole. E' una Smith & Wesson calibro 38. Di Bartolomei la carica, si sposta in veranda e là, nel silenzio, ancora in pigiama, preme il grilletto e spara. Un colpo dritto al cuore.
Giallo come il sole, rosso come il cuore. Sono passati dieci anni da quella sfortunata finale di Coppa dei Campioni. Dieci anni esatti. Ed è il destino forse, chiamiamolo pure un destino crudele e beffardo, quello che ha voluto che quello striscione partorito dall'ingenua fantasia di qualche tifoso, tornasse alla memoria. Destino, perché nello stesso giorno, con cadenza decennale, al popolo romanista due volte il cuore si è fer-mato e due volte il sole si è oscurato. Destino, perché quel giallo e quel rosso si sono sovrapposti, confusi ed annullati entrambe le volte, per poi riemergere con più forza di prima: mai come dopo quei due 30 maggio i tifosi hanno avuto bisogno di sole e di cuore.
Destino poi, soprattutto perché quel sole e quel cuore hanno corso lungo un filo dipanatosi attraverso dieci anni e con agli estremi gli spasimi di due diverse disperazioni, ma anche di due diverse generazioni.
Quelli che erano i campioni di ieri sono gli ex di oggi, quelli che sono i campioni di oggi saranno gli ex di domani, in una spietata continuità di ricambio fisiologico. E in mezzo a questo vortice senza un inizio né una fine, oltre agli anni che passano ci siamo noi, ci siete voi, ci sono tutti.
C'era anche Agostino, ma non ha resistito. E' rimasto vittima della sindrome da viale del tramonto, ha azzardato qualcuno. Non ha retto al grande vuoto che si era creato nella sua vita dopo l'abbandono del calcio, hanno sostenuto molti. Certo è che finché sei là, sotto la ribalta, per quanto se ne dica l'ambiente dello sport è un ambiente protettivo.
Per cinico e impietoso che possa sembrare, quello dello sport è un cantuccio che ti difende dall'aridità della vita e dei sentimenti. Finché dura.
«Sto fra due mondi, ma non mi sento a casa mia in nessuno di essi», diceva Tonio Kroeger riferendosi alla sua condizione di artista "fuorviato". Ed in effetti anche tutti gli ex campioni possono essere definiti artisti fuorviati, sospesi tra il limbo dei ricordi e la banalità del presente, spesso senza riuscire a trovare una precisa dimensione.
Il dramma di Di Bartolomei e di tanti ex forse era tutto qui, in questo ritrovarsi ad essere artisti della vita. Non tanto per la celebrità, né per il "genio", quanto per la diversità e l'unicità con cui si dipanava la matassa della loro esistenza.
Nel testo di una sua canzone Bruce Springsteen dice che per arrivare un giorno a camminare nel sole, bisogna prima adattarsi a percorrere le vie secondarie, quelle più in ombra. Ecco, gli ex si trovano ad affrontare la problematicità di un percorso esattamente inverso a questo: ritrovatisi personaggi ad appena vent'anni, spesso arrivati a quaranta sono costretti a reinventarsi "uomini comuni". E proprio in questa anomalia risiede la caratura artistica della loro vita.
Dieci anni prima Ago era là, sotto i riflettori dell'Olimpico, all'apice della carriera calcistica. Dieci anni dopo Agostino viveva diviso tra piccole partecipazioni ad imprese, proprietà immobiliari e vari progetti. Ha scelto di andarsene, e lo ha fatto fedele alla sua immagine di anti-eroe, senza grandi proclami, senza che intervenissero eventi sconvolgenti. Per lui ha agito la solitudine e il dolore, per noi, dopo, le recriminazioni e il rimpianto.
Ed è inutile stare a scavare e a sondare alla ricerca di una parola, di un nome, di un indizio. Per capire quel gesto bastano le parole di uno come lui, anch'esso anti-eroe, anch'esso a suo modo artista: Amleto. "Morire per dormire. Nient'altro. E con quel sonno poter calmare i dolorosi battiti del cuore e le mille offese naturali di cui è erede la carne. Morire per dormire. Dormire, forse sognare".Storie di Calcio • email info@storiedicalcio.itAgostino Di Bartolomei
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LA GAZZETTA DELLO SPORT. Di Bartolomei rivive. Gli 11 metri di Agostino ora diventano un film – mercoledì, 19 ottobre 2011 - ore: 10:23
Una sintesi dell'articolo de 'La Gazzetta dello Sport': Il regista Francesco Del Grosso ha voluto dedicare, in memoria del mito giallorosso Agostino Di Bartolomei, un documentario in cui si ripercorre tutta la sua vita: dalle grandi imprese con la Roma fino alla sua morte...
RASSEGNA STAMPA – Come riporta, questa mattina, l’articolo de ‘La Gazzetta dello Sport’, il mito di Agostino Di Bartolomei torna a vivere. Ci sono molte testimonianze sulla sua persona. Ce n’è una in particolare che riassume quello che è stato Ago. Curzio Maltese lo ricorda cosi’: «Agostino Di Bartolomei non era un uomo triste, ma un uomo serio. In un mondo, il calcio, che della sua serietà non seppe che farsene. E lui, questa realpolitik del pallone non riuscì mai ad accettarla». Francesco Del Grosso, di professione regista, ha voluto dedicare all’ex storica bandiera della Roma un documentario sulla sua vita. «Nella vita di un uomo, prima che di un calciatore — spiega Del Grosso —, un ritratto che vuole cercare di fare luce sui motivi che hanno portato Di Bartolomei all’isolamento forzato, alla depressione, che lo hanno costretto a prendere quella tremenda decisione, strappandolo alla vita a soli 39 anni». Ci sono ancora, tuttavia, molte domande che attendono risposte. Soprattutto sui reali motivi che spinsero Di Bartolomei al suicidio. Il giornalista Roberto Renga, con una riflessione più ampia sulla fragilità umana, prova a fornire una sua chiave di lettura: «Nessuno si immagina il mondo quando il mondo si sarà dimenticato di noi». Perché la Roma non gli offrì mai un posto da dirigente? «Forse anche lui aveva paura a rientrare nella sua città — racconta la moglie Marisa —, forse Ago doveva avere più coraggio, forse doveva essere più diretto, forse doveva chiedere aiuto». Il docu-film di Del Grosso s’intitola “11 metri” e verrà presentato in occasione della Festa del Cinema di Roma.
Gaetano Anzalone would have never traded Ago. He was the one that brought him into the Roma youth system. I find myself thinking more of those difficult days of the mid to late 1970's when I sat first in the Curva Nord, and then, the move of the Ultra's to the Curva Sud in 1977. To witness the development of what would be a championship team and one of the finest in Europe by 1980 was something I will never forget. They boys gave us so much in those days on and off the pitch. I can see Ago, Bruno Conti, Pruzzo and Franco Tancredi on the streets of Trastevere greeting us kids, taking time to talk to us. There were no camera's or reporters from the press. Our boys were not interested in a photo opportunity. That term was unknown at the time. It was a great time to be alive and to be a Roma fan despite the political turmoil that gripped Italy in those years. My generation will never forget Anzalone for what he gave to Roma.
BOYS ROMA ULTRAS 1972
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I guess you gents don't give a damn about history. Listen, if you wish to understand the meaning of Roma, you had better learn your history. We don't speak Spanish in Roma. Tommaso is the exception because he gets it.
I hear all of the bullshit that we don't post with enough frequency. Well, 48+ hours now and none of you so called Roma fans have a thing to say. How about I be provocative for a moment and say that none of you men without Italian blood have the capacity to comprehend. Scusami, Tommaso.
lol. I think I know my history. As much as I can, anyway, despite my lack of Italian blood (which is a valid point). I learn. This thread is good, Giovanni, keep it going.
I think I'm probably Roman by anamnesis. This would explain why, when we went to Europe for the first time in 1987, and I stood on the Campidoglio I had this remarkably deep sense of having returned, of wonder but also, inexplicably, of belonging. The emotion was quite unprepared - we went to many wonderful places on that trip, but the Campidoglio and the Palatine were the two places where I had this feeling. The Campidoglio was on our first evening in Rome. My brother was studying Latin at secondary school, but I hadn't studied any nor any classical history as such. The emotion came from nowhere - or from anamnesis, perhaps. The only equivalent are the smells and the sounds I encounter when I return to my parents' home - the combination of cicadas in the trees and the smell of the native pines or the song of one or other of the native birds and the smell of the tar just starting to melt in the hot sun on the roads I used to walk to school.
I'm also very grateful that I learnt my rugby and my love of rugby in the days when it was an amateur sport. I imagine the situation in Auckland in the 1980s was comparable to that in Rome in the late 1970s - the proximity to the players, their groundedness in the society they represented, the deep-seated pride in their jersey. It is quite different now that there is a totally different kind of money in the game and - even more - now that rugby is their job, rather than something they do after work. That creates a completely different gulf between players and fans. And money also brings much greater movement between teams. In the late 80s, Auckland was the best rugby team in the world; Sean Fitzpatrick's wife shopped at the green grocers around the corner and used to chat with my mum about news from abroad when the ABs were on tour; Graham Henry coached my junior cricket team; Zinzan Brooke missed a test match because he injured his achilles - supposedly falling down the stairs at home, in fact playing a sneaky game of Aussie Rules with his mates (against the team I joined the following year); Joe Stanley's son (who also went on to play for the All Blacks) was in my class at school and once, when I'd helped him with a bit of work, totally out of the blue he turned up the next week with the autographs of every single one of the then Auckland team for me. etc. etc. That is what having a side completely rooted in its community is all about. Those boys also played quite a few games of club rugby every year - a couple of them got in trouble after a club game in the pouring rain when a big pool of water had formed on the side of the pitch and a handful of the players spent 15 minutes using it as a mud slide and ruining the pitch. I am very grateful to have known amateur rugby. I still love watching the professional game, but I don't think I could ever have come to love the game in the same way. That at least, I think, Avocado, also gives me some chance of appreciating the culture of Rome and Roma in the late 70s and early 80s.
Winning or losing isn't a matter of life and death - it's more important than that? No, sport can be about things infinitely more important than merely winning or losing. It is a pity that football- and rugby-watching kids will find it harder and harder to grasp this rich truth.
I don't have a story of being connected to a team in such a way, but I can say that from the moment I first set foot in Rome it felt like home, or at least it felt like the place I was supposed to be. I can't say anywhere else has given me quite that same feeling, and I hadn't studied Roman art at that point, although I had studied Renaissance and Baroque art. I subsequently decided to focus my studies on Ancient Rome. My fascination with ancient Rome was because of the city itself. My fascination with Roma, the team, is rooted in my love of the city.
“I won things with that shirt and I know what it means. In no other city does a victory mean as much as in Rome."
Good stories. I was born in Rome but my father is from a town right outside of Naples. When I was 3 we moved to the states (Where my father had gone to Uni and his parents now lived). I remember going up to New Jersey and watching the 86 WC on my grandfathers lap at some place that had a satellite and I don't mean satellite tv, i mean a big satellite in the yard (as until as late as 1998 you still had to pay to see games on a special channel.)
It was disappointing but my Nonno imparted a love of soccer in me from then on. Italy went out but my grandfather was happy to see Diego win as he was a Napoli fan. After that I told him I would cheer for Napoli but he told me I was a Roman by birth and I should cheer for a Roman team. How I came about to love Roma and not Lazio I don't know but i thank god for it everyday.
maro,
When I walk through the streets of Rome at night and see the people preforming in Piazza Navona I feel at home. When I smell the bread for the first time in a year or two, I feel in heaven, and when i drive in Rome I feel a mixture of terror and elation...
On a side note my mum is from Newcastle NSW, so I love rugby and Aussies rules as well. When I wear my Newcastle Knights gear into a Pub I inevitably get some Englishmen who comes up and asks me what team the gear is from, thinking it's Newcastle, England.